A mandare su tutte le furie uno dei due fondatori dello storico marchio Dolce&Gabbana sono state le frasi dell’assessore comunale alle Attività produttive, Franco D’Alfonso, riportate dal Giornale. "Qualora stilisti come Dolce e Gabbana dovessero avanzare richieste per spazi comunali, il Comune dovrebbe chiudere le porte, la moda è un’eccellenza nel mondo ma non abbiamo bisogno di farci rappresentare da evasori fiscali", ha dichiarato D'Alfonso.
Che poi ha rettificato [ma questi "rettificano" sempre? classico sbianchetto sinistro], spiegando che la sua era una frase "non contenuta in un’intervista ma estrapolata da una conversazione informale che non esprimeva certo l’opinione dell’Amministrazione. Da parte mia c’è l’assoluto rispetto del principio costituzionale della presunzione di innocenza fino ad una sentenza definitiva. Auspico quindi che nel procedimento in corso Dolce e Gabbana chiariscano la loro posizione".
"Non è la prima volta che D’Alfonso parla a vanvera", ha dichiarato (il mitico) De Corato, ricordando "la trovata del gelato vietato dopo mezzanotte che mise in imbarazzo tutta la Giunta".
Dolce & Gabbana chiudono per 3 giorni le boutique di Milano (9 negozi), per protestare contro la miopia del Comune.
La querelle con la giunta Pisapia sfocia infatti in un caso che coinvolge mondo della moda e della politica. L'assessore al Commercio Franco D'Alfonso annuncia di non voler concedere né Duomo né Castello Sforzesco ai due stilisti per le loro sfilate di settembre, collezione donna. In realtà le passerelle non sono mai state richieste ufficialmente. Ciò che fa infuriare la maison (e non solo) è la motivazione del no. Di fatto l'assessore di Pisapia si inventa quella che sarà la sentenza dei giudici della Corte d'Appello e si dimentica che i gradi di giudizio in Italia sono tre. Si mette in tasca la condanna a un anno e 8 mesi emessa in primo grado, e inchioda sulla graticola i due principi del Made in Italy. Solo dopo, assalito da parecchi compagni del suo partito e dall'opposizione di centrodestra, D'Alfonso smussa i toni. E bla bla bla.
Un «pentimento» che arriva troppo tardi, quando ormai il popolo del web è già insorto contro il Comune di Milano: «Gettate fango sulle poche attività che funzionano», «Affossate il made in Italy». Ma la politica arancione non ci sente e rincara la dose. Il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo (Sinistra per Pisapia) se ne esce chiedendo, per la seconda volta, di revocare l'Ambrogino d'oro a Dolce & Gabbana. I due stilisti ottennero l'Oscar milanese nel 2009, quando la giunta di Letizia Moratti li volle premiare per il loro contributo a valorizzare l'immagine di Milano nel mondo.
Al doppio affronto della politica, Domenico Dolce e Stefano Gabbana rispondono con le serrande abbassate. E immaginare il centro di Milano senza le loro boutique vorrebbe dire ridurre introiti e turisti, vip e affari. Non solo. Gabbana lancia in rete un tweet di fuoco: «Comune, vergogna, fate schifo e pietà». A fargli eco è un'infinità di commenti sul social network: sono fans, politici, economisti, stilisti minori, tutti in difesa del marchio. Tutti scandalizzati dalla politica che fa le veci della giustizia. Pisapia, imbarazzato, cerca di fare da paciere: «La battuta dell'assessore è stata improvvida ma la reazione di Gabbana ingenerosa». Al deputato del Pdl Daniela Santanché non basta: «Pisapia chieda scusa ai due stilisti cui l'Italia intera deve molto e la smetta di trattare Milano come un soviet». L'assessore D'Alfonso «stavolta l'ha sparata grossa - insorge il vice del Consiglio comunale De Corato - offendendo un marchio tra i più prestigiosi, bandiera di Milano nel mondo. Dovrebbe piuttosto promuovere la moda, non denigrarla». Marco Osnato, capogruppo di Fratelli d'Italia, chiede lo stesso metro di misura «per le situazioni di illegalità, anche fiscali, di tanti edifici pubblici occupati abusivamente da centri pseudosociali».
La capitale morale diventata moralista
La ditta Dolce & Gabbana è stata di parola e ha iniziato la serrata, tre giorni di chiusura dei propri negozi milanesi per protestare contro una bischerata uscita di bocca a un assessore del capoluogo lombardo, Franco D'Alfonso: «Non bisogna concedere gli spazi simbolo della città a personaggi famosi e marchi vip che hanno rimediato condanne per evasione fiscale».
Impossibile non stare dalla parte dell'azienda, come d'altronde il nostro eccellente Camillo Langone ha scritto ieri sul Giornale. Per vari e validi motivi.
Uno. La condanna in primo grado non significa niente. Bisogna aspettare la sentenza finale della Cassazione per poter dire se uno o più imputati siano colpevoli. Strano Paese, il nostro, dove tutti si proclamano adoratori della Costituzione, ma nessuno (o pochi) ne rispetta la lettera e lo spirito.
Due. Gli spazi pubblici sono a disposizione di coloro che ne fanno uso a vantaggio della collettività. Non si può negare che Dolce & Gabbana sia una grande impresa che impiega centinaia e centinaia di lavoratori; che rappresenti - insieme con altre griffe del settore moda - il meglio del made in Italy; che costituisca un punto di forza dell'economia nazionale e sia quindi meritevole di essere incoraggiata e non avvilita con divieti assurdi dettati da pregiudizio ideologico.
Tre. I padroni in teoria possono avere commesso delle scorrettezze o addirittura dei reati, ma il loro marchio rimane importante per ragioni sociali e di mercato, per cui non va mortificato; al contrario, va tutelato e aiutato a mantenere le posizioni di prestigio acquisite allo scopo di garantire ai dipendenti e all'Italia introiti vitali.
Quattro. Se i due creatori di moda hanno sbagliato, pagheranno di tasca loro. Ma a stabilire se hanno torto sarà la magistratura al termine dell'iter giudiziario e non un assessore chiacchierino. In ogni caso, non deve andarci di mezzo l'azienda che è sì patrimonio privato, ma svolge funzioni che vanno ben oltre l'interesse della proprietà, estendendosi a quello di tutti coloro che vi prestano opera.
Cinque. Franco D'Alfonso, dopo avere espresso l'intenzione di inibire a Dolce & Gabbana l'occupazione di spazi pubblici per manifestazioni legate all'attività dell'impresa, ha tentato di fare macchina indietro, affermando di avere parlato a titolo personale. Giustificazione debole. Un assessore è tale anche quando dorme, figuriamoci quando si lascia andare a considerazioni inopportune e dannose per la reputazione dell'amministrazione di cui è fra i responsabili. Qui non si tratta di scusarsi bensì di cambiare rotta e di affrettarsi a offrire al marchio ciò che gli è stato ingiustamente negato.
Sei. Un modo per rimediare alla gaffe c'è: intervenga il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, per sconfessare il proprio collaboratore. Non pretendiamo che egli lo costringa a dimettersi; però lo convinca a non aggravare la situazione aggiungendo sciocchezze a sciocchezze. Il sindaco poi si ricordi che indennizzare i rom, anziché punirli perché hanno costruito case abusive, non è una bella cosa. A meno che il primo cittadino non ci voglia persuadere che l'abusivismo rappresenta una virtù, mentre l'elusione fiscale (ammesso sia provata) è un peccato mortale.
La querelle con la giunta Pisapia sfocia infatti in un caso che coinvolge mondo della moda e della politica. L'assessore al Commercio Franco D'Alfonso annuncia di non voler concedere né Duomo né Castello Sforzesco ai due stilisti per le loro sfilate di settembre, collezione donna. In realtà le passerelle non sono mai state richieste ufficialmente. Ciò che fa infuriare la maison (e non solo) è la motivazione del no. Di fatto l'assessore di Pisapia si inventa quella che sarà la sentenza dei giudici della Corte d'Appello e si dimentica che i gradi di giudizio in Italia sono tre. Si mette in tasca la condanna a un anno e 8 mesi emessa in primo grado, e inchioda sulla graticola i due principi del Made in Italy. Solo dopo, assalito da parecchi compagni del suo partito e dall'opposizione di centrodestra, D'Alfonso smussa i toni. E bla bla bla.
Un «pentimento» che arriva troppo tardi, quando ormai il popolo del web è già insorto contro il Comune di Milano: «Gettate fango sulle poche attività che funzionano», «Affossate il made in Italy». Ma la politica arancione non ci sente e rincara la dose. Il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo (Sinistra per Pisapia) se ne esce chiedendo, per la seconda volta, di revocare l'Ambrogino d'oro a Dolce & Gabbana. I due stilisti ottennero l'Oscar milanese nel 2009, quando la giunta di Letizia Moratti li volle premiare per il loro contributo a valorizzare l'immagine di Milano nel mondo.
Al doppio affronto della politica, Domenico Dolce e Stefano Gabbana rispondono con le serrande abbassate. E immaginare il centro di Milano senza le loro boutique vorrebbe dire ridurre introiti e turisti, vip e affari. Non solo. Gabbana lancia in rete un tweet di fuoco: «Comune, vergogna, fate schifo e pietà». A fargli eco è un'infinità di commenti sul social network: sono fans, politici, economisti, stilisti minori, tutti in difesa del marchio. Tutti scandalizzati dalla politica che fa le veci della giustizia. Pisapia, imbarazzato, cerca di fare da paciere: «La battuta dell'assessore è stata improvvida ma la reazione di Gabbana ingenerosa». Al deputato del Pdl Daniela Santanché non basta: «Pisapia chieda scusa ai due stilisti cui l'Italia intera deve molto e la smetta di trattare Milano come un soviet». L'assessore D'Alfonso «stavolta l'ha sparata grossa - insorge il vice del Consiglio comunale De Corato - offendendo un marchio tra i più prestigiosi, bandiera di Milano nel mondo. Dovrebbe piuttosto promuovere la moda, non denigrarla». Marco Osnato, capogruppo di Fratelli d'Italia, chiede lo stesso metro di misura «per le situazioni di illegalità, anche fiscali, di tanti edifici pubblici occupati abusivamente da centri pseudosociali».
La capitale morale diventata moralista
La ditta Dolce & Gabbana è stata di parola e ha iniziato la serrata, tre giorni di chiusura dei propri negozi milanesi per protestare contro una bischerata uscita di bocca a un assessore del capoluogo lombardo, Franco D'Alfonso: «Non bisogna concedere gli spazi simbolo della città a personaggi famosi e marchi vip che hanno rimediato condanne per evasione fiscale».
Impossibile non stare dalla parte dell'azienda, come d'altronde il nostro eccellente Camillo Langone ha scritto ieri sul Giornale. Per vari e validi motivi.
Uno. La condanna in primo grado non significa niente. Bisogna aspettare la sentenza finale della Cassazione per poter dire se uno o più imputati siano colpevoli. Strano Paese, il nostro, dove tutti si proclamano adoratori della Costituzione, ma nessuno (o pochi) ne rispetta la lettera e lo spirito.
Due. Gli spazi pubblici sono a disposizione di coloro che ne fanno uso a vantaggio della collettività. Non si può negare che Dolce & Gabbana sia una grande impresa che impiega centinaia e centinaia di lavoratori; che rappresenti - insieme con altre griffe del settore moda - il meglio del made in Italy; che costituisca un punto di forza dell'economia nazionale e sia quindi meritevole di essere incoraggiata e non avvilita con divieti assurdi dettati da pregiudizio ideologico.
Tre. I padroni in teoria possono avere commesso delle scorrettezze o addirittura dei reati, ma il loro marchio rimane importante per ragioni sociali e di mercato, per cui non va mortificato; al contrario, va tutelato e aiutato a mantenere le posizioni di prestigio acquisite allo scopo di garantire ai dipendenti e all'Italia introiti vitali.
Quattro. Se i due creatori di moda hanno sbagliato, pagheranno di tasca loro. Ma a stabilire se hanno torto sarà la magistratura al termine dell'iter giudiziario e non un assessore chiacchierino. In ogni caso, non deve andarci di mezzo l'azienda che è sì patrimonio privato, ma svolge funzioni che vanno ben oltre l'interesse della proprietà, estendendosi a quello di tutti coloro che vi prestano opera.
Cinque. Franco D'Alfonso, dopo avere espresso l'intenzione di inibire a Dolce & Gabbana l'occupazione di spazi pubblici per manifestazioni legate all'attività dell'impresa, ha tentato di fare macchina indietro, affermando di avere parlato a titolo personale. Giustificazione debole. Un assessore è tale anche quando dorme, figuriamoci quando si lascia andare a considerazioni inopportune e dannose per la reputazione dell'amministrazione di cui è fra i responsabili. Qui non si tratta di scusarsi bensì di cambiare rotta e di affrettarsi a offrire al marchio ciò che gli è stato ingiustamente negato.
Sei. Un modo per rimediare alla gaffe c'è: intervenga il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, per sconfessare il proprio collaboratore. Non pretendiamo che egli lo costringa a dimettersi; però lo convinca a non aggravare la situazione aggiungendo sciocchezze a sciocchezze. Il sindaco poi si ricordi che indennizzare i rom, anziché punirli perché hanno costruito case abusive, non è una bella cosa. A meno che il primo cittadino non ci voglia persuadere che l'abusivismo rappresenta una virtù, mentre l'elusione fiscale (ammesso sia provata) è un peccato mortale.
Vittorio Feltri